Alcune riflessioni sulla riforma Gelmini 2

Eutanasia dell’Un iversità
di Ugo Arrigo*
Lega e PdL stanno provando
a far approvare a tamburo
battente la riforma Gelmini
dell’Università. Poiché le
regole parlamentari non permettono
di approvare leggi di
spesa quando è aperta una sessione
di bilancio, e quindi sino
alla definitiva approvazione della
Finanziaria al Senato, pur di far
avanzare il provvedimento i parlamentari
della maggioranza
hanno accettato di espurgare il
testo di 34 emendamenti, da loro
stessi approvati nella precedente
lettura, che richiedevano
maggiori esborsi finanziari. La riforma
Gelmini arriva dunque nuda
alla meta, priva di risorse finanziarie
che non erano aggiuntive
rispetto agli stanziamenti
storici ma solo un ripristino parziale
dopo il passaggio delle forbici
di Tremonti sui fondi per gli
atenei. Valeva la pena adottare
questa strategia esclusivamente
per poter dire di aver fatto una
riforma?
Q UA N D O fu presentato il progetto,
un anno fa, scrissi su questo
giornale che esso aveva quattro
difetti rilevanti, invariati o
peggiorati nei passaggi parlamentari.
Il primo è il dirigismo:
il ministro, al vertice del sistema,
controlla attraverso le risorse
i 67 rettori statali i quali, a loro
volta, controllano i 63 mila docenti
pubblici con l’ausilio di
non ben definite personalità
esterne (imprenditori? politici
locali?) chiamate a far parte dei
consigli di amministrazione degli
atenei senza peraltro apportarvi
risorse economiche. Questo
schema verticistico è peggiorato
nell’ultima versione dato
che alla sommità della piramide
universitaria è stato ora posto
non il ministro dell’Univer sità
ma quello dell’Economia il quale,
secondo un emendamento
appena approvato, interviene
“con proprio decreto” per modificare
gli stanziamenti in bilancio
a favore dell’università. Il futuro
degli atenei sarà dunque legato
alla benevolenza dei ministri
dell’economia e per il futuro
della loro libertà si dovrà parlare
di libertà vigilata.
Il secondo difetto è l’af fidamento
della riforma a strumenti puramente
normativi: efficienza e
meritocrazia sono previste calare
dall’alto, appese ad articoli di legge.
E’ un evento poco probabile,
mai verificatosi sinora nel settore
pubblico. Il terzo difetto è l’ave r
preparato il provvedimento nel
chiuso delle cucine ministeriali,
senza confronti col mondo esterno
e con i diretti interessati dell’università.
In un qualunque
paese evoluto prima di proporre
una riforma di questa portata si
sarebbe affidato uno studio a una
commissione esterna, non governativa,
la quale sarebbe partita da
un bilancio della realtà corrente
per poi evidenziare diverse possibilità
di intervento, illustrandone
pregi e difetti. E’ quello che è
accaduto per la riforma universitaria
inglese con la commissione
affidata dal primo ministro David
Cameron all’ex amministratore
delegato di BP John Browne. In
Italia nulla di tutto questo.
Che bilancio si può trarre a nove
anni di distanza della precedente
riforma, quella che ha introdotto
il doppio ciclo del 3+2? Su di essa
si è detto tutto e il contrario di tutto
ma studi complessivi, approfonditi
e neutrali, non ve ne sono
stati. Eppure non appaiono condivisibili
due giudizi critici, frettolosamente
sostenuti e facilmente
smentibili: i) con la riforma
sarebbero state sprecate risorse
finanziarie; ii) la qualità media
dei laureati si è abbassata. E’
vero che le risorse totali impiegate
sono cresciute (abbastanza in
termini nominali, poco al netto
dell’inflazione) ma il prodotto
degli atenei pubblici, il numero
dei laureati, è aumentato molto di
più rispetto sia ai costi totali che
al numero dei professori. Questo
significa che tanto il costo per
studente quanto la produttività
dei docenti sono sensibilmente
migliorati nel tempo. I livelli di
costo per studente e di produttività
dei docenti sono migliori rispetto
alla media dei paesi Ocse.
All’aumento, innegabile, dei risultati
in quantità si controbatte
tuttavia con l’asserzione del peggioramento
della qualità media
dei laureati come se essa non fosse
un fenomeno ovvio, ed entro
certi limiti accettabile, all’accre -
scersi delle dimensioni produttive.
Se il gruppo Fiat non si ostinasse
più a produrre tutte queste
utilitarie e si limitasse alle sole
Ferrari accrescerebbe notevolmente
la qualità media delle sue
vetture e anche i vettori aerei aumenterebbero
la qualità media
dei posti offerti abolendo la classe
economy. Ma si tratterebbe di
pessime soluzioni per l’industr ia
dell’auto e per quella del trasporto
aereo e per il benessere dei rispettivi
consumatori.
IDEM per chi si ostina a sostenere
l’idea di un numero limitato
di atenei di alto livello ignorando
che formazione universitaria di
base, sulla quale l’Italia non se la
cava male, e formazione di eccellenza,
da noi insufficiente, sono
esigenze complementari e non
sostitutive. Chi sostiene questa
tesi dovrebbe anche domandarsi
perché i tanti giovani eccellenti
che continuano a uscire dai nostri
atenei fuggano verso impieghi
eccellenti all’estero. Scarsità
di patriottismo o forse assenza di
domanda sul suolo patrio per capacità
così elevate che potrebbero
compromettere i nostri stantii
equilibri corporativi?
Arriviamo così al quarto e ultimo
grande difetto: dove si parla nella
riforma del prodotto degli atenei?
Il testo legislativo non ne tratta
mai, come se un piano industriale
di Fiat non si occupasse mai di auto.
Eppure l’università produce e
diffonde conoscenze e saperi che
quando sono considerati nel loro
insieme rispondono alla parola
cultura (scientifica e umanistica,
ma la distinzione non è rilevante):
la cultura è lo stock di saperi, le
scoperte scientifiche il loro flusso
incrementale. E’ evidente che se il
prodotto degli atenei non ha alcun
valore allora ogni risorsa dedicata
alla sua realizzazione, anche un solo
euro, rappresenta uno spreco.
Questa è tuttavia l’i n t e r p re t a z i o n e
peggiore che si può dare della riforma.
Quella migliore è che si sia
stabilita la terapia senza verificare
la diagnosi e che la terapia preveda
di ridurre drasticamente le cure
somministrate al paziente rispetto
a quando stava molto meglio. Più
che di riforma si dovrebbe allora
parlare di eutanasia.
*professore di Scienza delle finanze
alla Bicocca di Milano

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