ma si possono fare riflessioni sullo stato dell'economia in Italia?

Dal Fatto quotidiano 10 Gennaio 2010

La crisi e il ritorno agli anni Ottanta
di Vladimiro Giacché*
La notizia è di fine dicembre, e la maggior parte dei
giornali l’ha confinata in poche righe. Ma avrebbe
meritato maggiore attenzione: il servizio studi
della Banca d’Italia, in una ricerca sulla crisi internazionale
e il sistema produttivo italiano, ha fatto
piazza pulita di tutte le fandonie di questi mesi sulla
presunta buona tenuta della nostra economia. Con
queste parole: “Rispetto ai massimi toccati all’inizio
del 2008, nel secondo trimestre dell’anno in corso l’in -
dice della produzione ha segnato una diminuzione cumulata
prossima al 25 per cento, con il risultato che,
nella scorsa primavera, il volume delle merci prodotte
si era riportato al livello della metà degli anni Ottanta.
Nella media dell’area e nei suoi principali paesi, il calo
è stato inferiore. Misurato in termini di trimestri persi,
cioè di quanto indietro nel tempo sono tornati i livelli
della produzione, la
maggiore gravità della
situazione italiana risulta
evidente: i 12 e i
13 trimestri di Francia
e Germania si confrontano
con i quasi
100 dell’Italia”. I trimestri
perduti sono
per l’esattezza 92: la
produzione a metà
2009 si è quindi attestata
agli stessi livelli
del secondo trimestre
del 1986. Fanno 23 anni:
non abbiamo perso
il lavoro di una generazione,
ma poco ci
manca.
Un primato poco invidiabile, reso possibile dal fatto
che in Italia la crisi è arrivata dopo un lungo periodo di
stagnazione, databile dalla seconda metà degli anni
Novanta. Cioè da quando sono finite le svalutazioni
competitive che periodicamente rianimavano le
esportazioni italiane (l’ultima è del 1995). A questo
punto le imprese avrebbero dovuto cambiare gioco,
puntando sull’innovazione di prodotto e soprattutto
di processo. Hanno preferito premere l’a cceleratore ,
più ancora che in passato, sugli altri due pedali tradizionalmente
adoperati: il basso costo del lavoro e
l’evasione fiscale. Solo così si spiegano i dati apparentemente
contraddittori esibiti dall’economia italiana
in questo periodo. Da un lato la produttività del lavoro
ha un andamento pessimo (scende all’1,7 per cento
negli anni 1992-2000, ed è addirittura nulla dal 2000 al
2008), e il Prodotto interno lordo ristagna: negli anni
1999-2009 la crescita complessiva è stata appena del
5,5 per cento, mentre i paesi dell’area dell’euro crescevano
in media del 13,5 per cento. Dall’altro, i profitti
non solo tengono, ma crescono: dopo il 1993 sono
aumentati per tutti gli anni Novanta, sia in percentuale
del Pil sia come quota sul valore aggiunto, e lo stesso è
avvenuto anche nei primi anni Duemila. Come è possibile?
In un solo modo: attraverso un gigantesco trasferimento
di ricchezza a danno dei salari. E infatti negli
ultimi venti anni in Italia il valore degli stipendi rispetto
al Prodotto interno lordo è crollato del 13 per
cento (contro un calo dell’8 per cento nei 19 paesi più
avanzati). Oggi le buste paga italiane sono scivolate al
posto numero 23 (su 30) nella classifica dei paesi più
industrializzati dell’Ocse, e risultano inferiori del 32
per cento rispetto alla media dell’Europa a quindici.
A questo va poi aggiunta un’evasione fiscale da guinness
dei primati, ben testimoniata dai 95 miliardi di
euro appena condonati al prezzo di un obolo del 5 per
cento. In 10 anni, siamo già alla terza amnistia fiscale
(solo all’estero però la si chiama così: in Italia, regno
degli eufemismi, si preferisce parlare di “scudo fiscale”).
Ed è grave. Perché, anche se di rado ci viene rammentato,
l’evasione fiscale non è soltanto una vergogna
(e un reato), ma è anche disastrosa dal punto di
vista economico. Amplifica le disuguaglianze sociali,
rende impossibile affrontare il problema del debito
pubblico e distorce la concorrenza. Ma soprattutto
perpetua un handicap storico del nostro sistema produttivo:
il nanismo delle imprese. Sino a non molto
tempo fa impazzava la retorica del “piccolo è bello”,
delle piccole imprese capaci di sfidare le leggi dell’eco -
nomia facendo a meno delle economie di scala.
La verità era ed è un’altra: in Italia in molti casi il consolidamento
industriale che sarebbe stato necessario è
stato evitato grazie a quel particolare abbattimento dei
costi di produzione rappresentato proprio dall’e vasione.
Imprese che sarebbero state fuori mercato se avessero
pagato le tasse, si sono autoridotte questo costo e
così sono riuscite a fare profitti (perlopiù poi non investiti
nella produzione, ma dirottati sul patrimonio
personale dell’imprenditore). Tutto questo ha concorso
a far scivolare il nostro sistema economico verso
una frontiera competitiva arretrata, imperniata sulla
competizione di prezzo, anziché sulla qualità e sul contenuto
tecnologico dei prodotti, in concorrenza con i
paesi emergenti e di nuova industrializzazione: una
battaglia persa in partenza. È qui che va ricercata la
radice della stagnazione economica del nostro paese e
della batosta economica che si è profilata nei primi
anni del nuovo secolo, quando la riduzione dei dazi
all’importazione di molti prodotti ha messo fuori mercato
numerose nostre produzioni. È su questo spiazzamento
competitivo che la crisi mondiale iniziata nel
2007 si è innestata, infierendo ulteriormente. Sarebbe
urgente invertire la rotta. Si sta facendo il contrario.
*economista e partner di Sator spa

Se provassimo a pensarci su?

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